SAI RICONOSCERE UNA PERSONA CHE MENTE..?

giovedì 27 dicembre 2012

auguri 2013



"Non possiamo  pretendere che  le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.

La crisi è la più grande benedizione  per le persone e le nazioni, perché la crisi porta progressi. La creatività nasce dall'angoscia come il giorno nasce dalla  notte oscura. E' nella crisi che sorge l'inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi  supera sé stesso senza essere 'superato'.

Chi attribuisce alla crisi i suoi fallimenti e difficoltà, violenta il suo stesso talento e dà più valore ai problemi che alle soluzioni. La vera crisi, è la crisi dell'incompetenza.
 L' inconveniente delle   persone e delle nazioni  è la pigrizia nel cercare soluzioni e vie di uscita.Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è una routine, una lenta agonia. Senza crisi non c'è merito. E' nella crisi che emerge il meglio di ognuno, perché senza crisi tutti i venti sono solo lievi brezze. Parlare di crisi significa incrementarla, e tacere nella crisi è esaltare il  conformismo. Invece, lavoriamo duro. Finiamola una volta per tutte con l'unica crisi pericolosa, che  è la tragedia di non voler lottare  per superarla."

(Albert Einstein - 1929)

 Auguro tutta la felicità di queste feste di fine anno e di prosperità per il nuovo anno. Il vostro supporto è sinceramente apprezzato. Ci auguriamo di poter continuare il nostro rapporto nel prossimo anno.


Warm Regards,
Lo Staff di law firm of forensic investigations

martedì 11 dicembre 2012

SINDROME DI STOCCOLMA Parte seconda

I meccanismi psicologici

 Pur non essendo riconosciuta come sindrome vera e propria, né come stato clinico patologico, la sindrome di Stoccolma è pur sempre una reazione mentale molto interessante, che ha spesso rapito l’attenzione dei mass media nonché di molti artisti: i notiziari di tutto il mondo ne hanno parlato, si sono tenuti molti dibattiti sul tema e ha ispirato film e libri.
 Ma cos’è esattamente e come nasce?



Un po’ di storia
Il termine “sindrome di Stoccolma” fu pronunciato la prima volta in Svezia durante un telegiornale dallo psicologo e agente speciale dell’FBI, Nils Bejerot, riferendosi al sequestro di persona che si verificò nella banca “Kreditbanken” di Stoccolma dal 23 al 28 agosto 1973.
In questo sequestro, seguito da Bejerot in quanto esperto criminologo, il detenuto Janne Olsson durante una libera uscita, con l’aiuto di Clark Olofsson, tenne in ostaggio quattro funzionari della banca per sei giorni.
Durante questo periodo le vittime svilupparono un legame tale da arrivare ad ostacolare sia le operazioni di recupero che le indagini, fino al punto che Olofsson, noto malvivente dall’età di 16 anni, fu riconosciuto innocente dalla corte d’appello in quanto non vi erano sufficienti prove ad indicare un suo coinvolgimento reale in prima persona e le vittime si rifiutarono di testimoniare.
Ad Olofsson era stato difatti riconosciuto l’aver semplicemente parteggiato per Olsson, ma anche questa accusa ben presto cadde, Olofsson infatti sostenne che il suo intento era quello di cercare di aiutare gli ostaggi a mantenere la calma così che non vi fossero conseguenze. Si noti che costui durante il sequestro era armato e durante un primo tentativo di recupero degli ostaggi ferì un poliziotto, ma aiutato dalle testimonianze a suo favore da parte degli ostaggi, Olofsson fu rilasciato: grottesco pensare che due anni dopo fu l’artefice di quello che allora fu considerato il furto più grande nella storia della Svezia: un milione di corone svedesi, di cui buona parte non è mai stata recuperata.

Ma cosa scatta nella mente delle vittime? 
Come mai sembrano legarsi affettivamente al loro carnefice?
I meccanismi della sindrome di Stoccolma

Il motivo per cui le vittime si legano al loro carnefice si spiega col fatto che sono letteralmente nelle sue mani, da lui dipende la vita e la morte, si diviene quindi come dei neonati tra le braccia di un genitore, o meglio ancora ci si vede come esseri mortali sottomessi a un dio da compiacere per evitarne l’ira e da amare per i suoi momenti di benevolenza.
In tale condizione qualsiasi atteggiamento di non ostilità, come ad esempio dare momentaneamente tregua al supplizio, concedere di andare in bagno, o dare nutrimento viene recepito dalla vittima come una grande prova di magnanimità.
Anche il rapitore, d’altro canto, sentendosi “rispettato” e compiaciuto mostra reale magnanimità verso i suoi ostaggi, creando un circolo vizioso tra concessioni, ubbidienza, maggiori concessioni e ancora più ubbidienza.
In questa situazione il “mortale” (la vittima) vede il “dio” (il carnefice) come oggetto di ammirazione e, nel caso si tratti di sottomissione a sfondo sessuale, può giungere all’innamoramento.
La vittima vorrebbe quindi essere come il carnefice, si identifica con lui (o sente il desiderio di far parte della sua vita) sentendo in tal modo di poter condividere quella “potenza divina”.
Per sentirsi coerente con se stesso, non comprendendo il meccanismo mentale che produce in lui la strana ammirazione, la vittima prova una razionale comprensione per il carnefice: arriva a giustificarlo per quello che sta facendo e a comprenderlo, talvolta immaginando una vita difficile o un’infanzia infelice, o dando assieme a lui la colpa alla società, in tal modo l’identificazione o l’innamoramento (misto a tenerezza) diviene ancora più forte, rafforzando ancora di più il circolo vizioso.
A questo punto, “affezionandosi”, la vittima si è quasi assicurata, pur non consapevolmente, la sopravvivenza, in quanto l’oppressore ne percepirà la vulnerabilità e l’accettazione di inferiorità e, spesso, compiaciuto da tale atteggiamento la lascerà in vita.

Ma allora la sindrome di Stoccolma è una sorta di meccanismo di difesa? 

Ebbene sì, si potrebbe definire il meccanismo di difesa dei più deboli che in quanto tali riescono però ad avere la meglio rispetto alle vittime più forti.
Infatti questa sindrome solitamente coglie le persone con poca forza fisica o di carattere e più impaurite.

Non è un caso che le donne ne siano più spesso “affette”: dopotutto esse vivono in un mondo dove la maggior parte degli uomini è potenzialmente – o apparentemente – più forte e la selezione naturale le ha dotate di un meccanismo che istiga alla protezione.

E quando la vittima viene liberata cosa accade?

Nel momento in cui ritrova la libertà rimane legata alle convinzioni maturate durante il sequestro, in quanto questo è l’unico modo di sentirsi coerente con se stessa, addirittura può capitare che continuino rapporti d’amicizia con i sequestratori.
Vi sono casi in cui la vittima accecata dall’ammirazione per il suo carnefice è riuscita a convincere di tale valore anche la propria famiglia. Effettivamente questo accadde proprio nella rapina della banca di Stoccolma in cui Olofsson divenne addirittura amico di famiglia di Kristine Animarca, una degli ostaggi.

Vi sono casi particolari probabilmente annoverabili come sindrome di Stoccolma, ma molto più repentini di questa, in cui la vittima segue le istruzioni di un ipotetico aguzzino anche se potrebbe farne a meno in quanto non realmente sotto minaccia. In questi casi quello che scatta nella mente della vittima è l’essere stata “prescelta”: il sentire di essere stato scelto fra tanti induce ad obbedire al vessatore, il quale una volta defilatosi, verrà da un lato ammirato perché è riuscito senza uso di armi o di violenza ad ottenere quello che voleva, a dall’altro simbolicamente temuto in quanto la vittima non accettando il fatto di essere stata ella stessa a voler far parte del gioco, si chiederà come avrà fatto mai questo giocoliere delle menti a convincerla ad ubbidire.

Infatti questa sindrome solitamente coglie le persone con poca forza fisica o di carattere e più impaurite.
Non è un caso che le donne ne siano più spesso “affette”: dopotutto esse vivono in un mondo dove la maggior parte degli uomini è potenzialmente – o apparentemente – più forte e la selezione naturale le ha dotate di un meccanismo che istiga alla protezione.
E quando la vittima viene liberata cosa accade? Nel momento in cui ritrova la libertà rimane legata alle convinzioni maturate durante il sequestro, in quanto questo è l’unico modo di sentirsi coerente con se stessa, addirittura può capitare che continuino rapporti d’amicizia con i sequestratori.
Vi sono casi in cui la vittima accecata dall’ammirazione per il suo carnefice è riuscita a convincere di tale valore anche la propria famiglia. Effettivamente questo accadde proprio nella rapina della banca di Stoccolma in cui Olofsson divenne addirittura amico di famiglia di Kristine Animarca, una degli ostaggi.

Vi sono casi particolari probabilmente annoverabili come sindrome di Stoccolma, ma molto più repentini di questa, in cui la vittima segue le istruzioni di un ipotetico aguzzino anche se potrebbe farne a meno in quanto non realmente sotto minaccia. In questi casi quello che scatta nella mente della vittima è l’essere stata “prescelta”: il sentire di essere stato scelto fra tanti induce ad obbedire al vessatore, il quale una volta defilatosi, verrà da un lato ammirato perché è riuscito senza uso di armi o di violenza ad ottenere quello che voleva, a dall’altro simbolicamente temuto in quanto la vittima non accettando il fatto di essere stata ella stessa a voler far parte del gioco, si chiederà come avrà fatto mai questo giocoliere delle menti a convincerla ad ubbidire.


Ma quando l’ostaggio sostiene che il suo rapitore si è comportato gentilmente siamo sempre di fronte alla sindrome di Stoccolma? 

La risposta è no. 

E’ possibile infatti che il sequestratore si sia realmente comportato gentilmente con i suoi ostaggi in quanto si sia egli stesso immedesimato nella loro situazione dispiacendosene.
 In questo caso siamo di fronte a quella che viene chiamata sindrome di Lima.

Sindrome di Lima

Questo nome deriva dal rapimento durato 128 giorni nell’ambasciata giapponese a Lima, ai cui 72 ostaggi rimanenti (da 400 che ne erano) fu permesso di giocare a scacchi, a carte, fu addirittura organizzata dai rapitori una festa di compleanno con tanto di torta.
In questa sindrome i rapitori empatizzando con le vittime decidono realmente di passare dalla coercizione violenta ad una linea più gentile di convivenza.
Da quanto abbiamo però detto sulla sindrome di Stoccolma, non è difficile che il sequestratore risponda a sua volta con una sorta di sindrome di Lima. Se però da un lato è vero che la sindrome di Stoccolma può provocare la sindrome di Lima, dall’altro lato è anche vero che la sindrome di Lima può presentarsi spontaneamente in un aguzzino, più spesso se questi è giovane e inesperto, o con caratteristiche di personalità meno marcate e decise, con quindi tendenza a vacillare nel suo comportamento coercitivo. In questo caso se messo di fronte ad un individuo che ispiri simpatia o fermezza di carattere, il sequestratore può addirittura arrivare a sentire sentimenti di amicizia e ammirazione verso la vittima, tali sentimenti lo indurranno a comportarsi amichevolmente, ad ascoltare i suoi consigli venendone talvolta addirittura persuaso, arrivando in alcuni casi a liberarla spontaneamente.

Come non sarà sfuggito a molti di voi lettori, la sindrome di Stoccolma ricorda molte situazioni comuni della vita quotidiana, nonché di alcuni tipi di rapporti sessuali.

Sindrome di Stoccolma dal sesso alla politica

Nello stesso articolo abbiamo parlato della sindrome di Stoccolma concentrandoci sulle origini, sia da un punto di visto semantico, per capire come è nata questa definizione, sia da un punto di vista effettivo, per scoprire come nasce questa sindrome e quali sono le sue conseguenze. A questo punto guardiamone gli sviluppi pratici, sia per analizzare le connessioni con altri contesti che per esaminare  alcuni dei casi più famosi.

Sindrome di Stoccolma e feticismo 

 Si possono trovare similitudini con il meccanismo psicologico della sindrome di Stoccolma in molte interazioni umane dove vi sia rapporto tra un individuo debole (vittima o pseudo vittima) e uno più forte.
Vi sono per esempio pratiche sessuali come il sado-maso dove il masochista sentendosi debole si sente attratto da una persona più forte, la quale deve dimostrare la sua forza con la violenza, ma questa violenza viene alternata a premi o concessioni, che ricordano quelli del sequestratore. 

Questa pratica si fonda proprio dall’alternanza di dimostrazione di forza e di magnanimità.
Un'altra pratica feticista che poggia su meccanismi affini a quelli della sindrome di Stoccolma è il bondage: il partner legato è proprio nelle condizioni in cui si trovano le vittime di sequestro, dall’esperto di nodi dipende la sua vita e da questi riceve concessioni piacevoli pronte per essere sopravvalutate.
Al di là dei giochi sessuali che si ispirano al ruolo servo-padrone, nella vita di tutti i giorni entrano in gioco gli stessi meccanismi – soprattutto nel campo degli affetti – dove ci sia un ruolo di subordinazione.


La sindrome di Stoccolma nei sentimenti e nelle relazioni



Molto simili alla sindrome di Stoccolma sono alcuni tipi di relazione sentimentale o affettiva dove la dipendenza dell’innamorato ricorda quella della vittima. In realtà nelle relazioni d’amore un sentimento di dipendenza reciproco è sempre presente, ma vi sono casi in cui una delle due parti diviene carnefice e l’altro vittima. E’ il caso ad esempio dei mariti che maltrattano fisicamente o verbalmente le mogli per poi fare loro dei regali, ottenendo il perdono.


 Spesso ci si chiede effettivamente come mai una moglie non denunci o non abbandoni un marito violento: può essere spiegato analizzando i meccanismi della sindrome di Stoccolma.

In queste coppie si crea un meccanismo per cui ad ogni violenza perpetrata dal marito segue una forma di perdono attraverso tenerezza e regali che vengono sovrastimati rispetto a ciò che realmente rappresentano: attraverso questo schema violenza-perdono, la vittima “innamorata” si chiude in una prigione dalla quale sarà sempre più difficile uscire e dove la violenza crescerà e sarà accettata per tanti anni come prezzo da pagare per le adorate “concessioni” simbolo di clemenza e grandezza (in un certo senso questa situazione è descritta dalla famosa canzone di Mina “Grande, grande, grande”).
Vi sono casi di sindrome di Stoccolma “applicata” a famiglie dove un genitore fa da padrone tenendo subordinata la famiglia come fosse rapita. Nella cronaca nera racconta diverse situazioni del genere: ricordate ad esempio il caso Fritzl, quell’austriaco che sotto gli occhi della moglie tenne prigioniera la figlia per 24 anni? ma senza andare a cercare casi limite. 
Basta pensare alla PAS (la sindrome da alienazione genitoriale: che in alcuni casi si presenta come la versione familiare della sindrome di Stoccolma: genitori che conquistano l’ammirazione dei figli tra severità e concessioni. In questi casi, esattamente come le vittime cercano di compiacere i loro carnefici, i figli cercheranno di compiacere il genitore dominante spinti dal desiderio di approvazione.
Un altro esempio è quello dell’amante: usato (o usata) talvolta e altre volte ignorato (o ignorata), quasi sempre riempito di bugie, al quale vengono fatte sporadiche telefonate e regali per mantenerlo comunque sotto il controllo. Essendo questo un caso molto tipico si potrebbe quasi pensare a una nuova sindrome, quella “dell’amante”.
Infine un altro esempio classico è quello in cui l’individuo vedendosi in un rapporto di subordinazione rispetto ad un proprio istruttore o maestro se ne “innamora”, talvolta provando forte ammirazione per la sua conoscenza, sentendosi dipendente dal suo sapere, altre volte per il desiderio di immedesimarsi in lui.
Di fatto imitandolo e seguendolo in tutto per sentire sulla propria pelle parte della sua aura. In alcuni casi più che un innamoramento sembra esservi un bisogno di compiacenza, così da risultare il “preferito” e magari sviluppare nel maestro una sorta di sindrome di Lima, inversa a quella di Stoccolma, in cui colui che dovrebbe essere in una posizione di dominio va invece a subordinarsi alla vittima.

Sindrome di Stoccolma e politica

Ultimamente si sta parlando molto della sindrome di Stoccolma riferita alla situazione economica italiana. In particolare si riflette sulla possibilità che il consenso popolare verso i rappresentanti politici sia in realtà l’effetto di una sindrome di Stoccolma generalizzata. Ma l’esempio non pare calzante visto che sono davvero pochi i regali concessici da questi ipotetici sequestratori, così come raramente si sente parlare effettivamente bene del loro operato. Forse si tratta piuttosto di incapacità a individuare strumenti di difesa e di reazione.
Non si può però negare che spesso noi italiani siamo affascinati dal mondo delle stelle (le star) nel quale i politici in quanto persone veramente importanti si trovano molto a loro agio. Allora potremmo azzardare che non si tratti di una sindrome di Stoccolma ma di un altro tipo di sindrome, la sindrome da vippismo che potrebbe anche essere una patologia: la vippofilia.
Ma forse un regalo, un “premio”, la politica ce lo ha concesso per conservare il nostro controllo: il mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento televisivo. Ma su questo ci sarebbe molto da meditare.

La lettura del prossimo articolo, quello dedicato ai casi più famosi di sindrome di Stoccolma, la sconsiglio a chi fosse… impressionabile!

Gli orrori della sindrome di Stoccolma 

Eccoci arrivati ai casi più noti sulla sindrome di Stoccolma. Del caso che determinò il nome di questa sindrome abbiamo già parlato nel primo articolo (correlato a questo). Ora vediamo gli altri episodi che hanno fatto storia. Ammonendo coloro che fossero particolarmente impressionabili di evitare la lettura di questo articolo.

Il caso di Giuliana Amati

 Cominciamo con un caso meno scioccante, avvenuto nel nostro Paese, che vide come protagonisti la pilota di formula 1 e formula 3 Giuliana Amati e Jean Daniel Nieto, il brigante gentiluomo di origini francesi, arrestato nel 2010 dopo 22 anni di latitanza tradito da un geco tatuato sul collo.
Daniel Nieto nel 1974 rapì Giuliana Amati, figlia di una ricca famiglia romana, ma i due si innamorarono, e quando Giuliana fu rilasciata dopo il pagamento del riscatto, la voglia dei due di incontrarsi determinò l’arresto dell’uomo tra le urla disperate della ragazza.

In questo caso la sindrome di Stoccolma sviluppata da Amati riuscì a sensibilizzare il suo rapitore a tal punto da fare breccia nel suo cuore.


Il caso di Gianni Ferrara
Un altro caso italiano fu quello di Gianni Ferrara, bambino di 8 anni figlio di un proprietario di ristoranti di Castellamare di Stabia, rapito mentre si trovava con la famiglia ai Caraibi e portato in Venezuela da 5 agenti di polizia dello Stato di Zulia che chiesero un riscatto di 650 milioni di lire.
Gianni Ferrara negli oltre 2 mesi di sequestro si affezionò a tal punto ai suoi rapitori che quando questi vennero arrestati inveì contro la polizia. E durante i giorni del sequestro si rapportò ai genitori telefonicamente con tonalità molto fredde, in netto contrasto con il calore che stava dimostrando per i suoi rapitori, testimoniato dalle sue stesse parole.
La sindrome di Stoccolma di certo ha aiutato il bambino ha vivere in maniera più “serena” durante il suo sequestro, ma la mente di un bambino è purtroppo facilmente manipolabile e le conseguenze possono essere gravi, non solo per quanto riguarda il rapporto con i genitori durante e subito dopo il sequestro.



Il caso di Clara Rojas
 Un altro caso emblematico di sindrome di Stoccolma fu quello di Clara Rojas, politica colombiana, rapita nel 2002 dalla FARC (Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane). Si innamorò di uno dei suoi rapitori col quale ebbe una relazione d’amore segreta, dalla quale nacque un bambino.
In realtà in questo caso è difficile stabilire se vi fu dapprima una sindrome di Stoccolma o di Lima, oltretutto l’amore tra i due fu ostacolato dalla FARC stessa che allontanò il proprio guerrigliero dalla donna rapita.
Si noti però come dalla sindrome di Stoccolma, quando provoca un sentimento ricambiato anche nel sequestratore, possano scaturire frutti positivi.


A questo punto, ultimo avvertimento: se siete sensibili, non continuate a leggere!



Il caso di Natascha Kampusch
Uno dei casi più gravi per durata e intensità fu quello di Natascha Kampusch, giovane austriaca rapita all’età di 10 anni da Wolfgang Priklopil il cui intento era quello di procurarsi una schiava. Natascha fu tenuta segregata per otto anni, Wolfgang era per lei il buio e la luce in molti sensi: l’aveva rinchiusa in uno stanzino di 5metri per 2 e decideva quando vi dovesse essere luce e quando buio. Era per lei talvolta il suo aguzzino altre volte colui che la nutriva e le faceva compagnia. Tra i due vi erano attività di tipo familiare quali leggere, cucinare o fare le faccende di casa che però Natascha era però costretta a svolgere in abiti succinti. Wolfgang Priklopil la faceva dormire a volte nel suo stretto bunker e altre volte legata ai piedi del suo letto. Oltre a determinare tutta la sua vita come un dio onnipotente, Wolfgang Priklopil faceva anche le veci di un padre “premuroso”, si occupava infatti anche dalla cura di Natascha e della sua igiene, la lavava e in particolare era molto attento alla sua igiene dentale. Assieme decisero anche l’arredamento della “gabbia” blindata di Natasha, e vi erano talvolta piccoli battibecchi tra i due.
Alcuni psicologi hanno in verità negato che Natascha abbia sofferto di sindrome di Stoccolma, in quanto era in una condizione di sottomissione fisica, ma non mentale, tanto è vero che riuscì dopo 8 anni a scappare. Tuttavia a mio parere bisogna considerare che Natasha era stata rapita da bambina e che inevitabilmente passò dalla dipendenza per i genitori a quella per il suo carceriere, come lei stessa ha poi ammesso. Questa dipendenza è proprio la base della sindrome di Stoccolma, oltretutto Natasha scappò dopo un litigio con Wolfgang proprio come accade agli adolescenti quando litigano con i genitori, con la differenza che Wolfgang Priklopil non era suo padre. Infine quando Natascha trovò la forza di fuggire, il suo rapitore si suicidò, con rammarico di lei. Difficile essere d’accordo con chi ha negato la possibilità che vi fosse stata sindrome di Stoccolma. Piuttosto si può asserire che esistano diversi tipi di sindrome di Stoccolma, con diversi sviluppi e diverse intensità. Del resto, i casi che stiamo raccontando dimostrano proprio questo.


Il caso Elisabeth Fritzl 
 Si riferisce ad un episodio di cronaca nera avvenuto nella cittadina austriaca di Amstetten dove una donna austriaca (Elisabeth Fritzl) ha vissuto imprigionata per 24 anni in un bunker sotterraneo costruito dal padre, l'ingegnere Josef Fritzl, nella cantina di casa. Durante tutto il periodo della prigionia si sono susseguiti vari abusi sessuali da parte dell'uomo nei confronti della figlia e da questi rapporti incestuosi sono nati sette figli.


Il rapimento

Il 24 agosto del 1984, i coniugi Rosemarie e Josef Fritzl denunciano la fuga della loro figlia diciottenne Elisabeth che, al seguito di una setta religiosa, si sarebbe allontanata da Amstetten, cittadina della Bassa Austria. Si tratterebbe di un allontanamento volontario, il secondo della ragazza che, solo due anni prima, aveva tentato la fuga da casa prima di essere (allora sedicenne) riconsegnata alla famiglia dalla polizia.

Nel 1982 avevo 16 anni ed ero fuggita da casa. Lui mi stuprava da molto tempo. Dall'autogrill di Strengberg, mi ero nascosta a Vienna. Dopo due settimane la polizia mi trovò. Supplicai gli agenti di non riconsegnarmi a mio padre. Dissi loro che se fossi tornata da lui per me sarebbe stata la fine. Ma non ci fu nulla da fare”.

Quel giorno del 1984 però, si scoprirà in seguito, Elisabeth non si è affatto allontanata di nuovo da casa ma, contro la sua volontà, è stata rinchiusa nella cantina di casa dal padre Josef. La ragazza racconterà poi di aver cercato di fuggire di casa poco prima del rapimento e di aver chiesto aiuto ai poliziotti raccontando loro dei primi abusi subiti da parte del genitore. Non essendo però creduta, le sue affermazioni caddero nel vuoto e fu quindi riaffidata alla famiglia. E proprio a seguito di quest'ultimo episodio, il padre, decise definitivamente di segregarla tenendola nascosta al mondo intero per ben 24 anni.

La prigionia

 Nei primi sei mesi della sua prigionia, Elisabeth rimane sempre legata a un letto, drogata e costretta a scrivere una lettera (che il padre consegnerà poi alla polizia) in cui racconta ai genitori di essere scappata all'estero, chiedendo loro di non essere cercata.

Nel corso dei successivi 24 anni, Josef Fritzl, visita la cantina mediamente ogni tre giorni per portare cibo e altri rifornimenti alla figlia e, soprattutto, per abusare sessualmente di lei, contro la sua volontà.


 A causa di queste violenze, durante la sua prigionia, Elisabeth darà alla luce sette figli.

Uno di questi (Michael) morirà tre giorni dopo la nascita, mentre altri tre neonati (Lisa a nove mesi nel 1993, Monika a dieci mesi nel 1994, e Alessandro a 15 mesi nel 1997) verranno invece poi tolti dalla cantina e portati dal padre/nonno a vivere con lui e con sua moglie, spacciati per figli adottivi e fingendo di averli trovati sulla porta di casa insieme a dei (falsi) biglietti scritti della figlia che ne chiedeva la presa in carico da parte dei propri genitori. Il tutto avviene con la piena consapevolezza delle autorità locali e dei servizi sociali che, per molto tempo, fino alla scoperta della verità, crederanno alla tesi di Fritzl. Gli ultimi tre figli (Kerstin, Stefan e Felix) invece rimarranno sempre nel bunker insieme a Elisabeth, senza mai avere la possibilità di vedere l’esterno e la luce del sole, sin dal giorno della nascita.

Quando Fritzl si recava in cantina lo faceva sin dalla mattina, apparentemente per progettare piani per macchine che vendeva alle imprese, spesso rimanendovi per tutta la notte e impedendo alla moglie anche solo di portargli il caffè. Un inquilino, affittuario di una camera al piano terra della casa che ha vissuto per 12 anni nello stesso stabile dei Fritzl, rivelò in seguito di aver sentito rumori provenire dal piano interrato e di averne poi chiesto spiegazione allo stesso Fritzl che, minimizzando la cosa, avrebbe attribuito il tutto al sistema di riscaldamento a gas.

Quando un giorno Kerstin, la figlia maggiore di Elisabeth, si ammalò gravemente e Josef Fritzl dovette cedere alle richieste della ragazza di portare la bambina in un ospedale, si innescarono una serie di eventi che alla fine portarono alla scoperta della macabra storia.

 L'omicidio del neonato

Nel 1996 uno dei figli nati dal rapporto incestuoso, di nome Michael, morirà solo tre giorni dopo la nascita a causa di problemi respiratori, essendo soprattutto privato ​​di qualsiasi assistenza medica. Elisabeth afferma che Fritzl era presente quando il volto del bambino iniziava a diventare viola per problemi di respirazione e che lo stesso si rifiutò di portarlo dal medico, replicando con un secco "succederà quel che deve succedere".

In seguito Fritzl farà scomparire il corpicino del neonato bruciando il cadavere nell'inceneritore di casa e gettando le ceneri in giardino, all'interno della sua proprietà. Al processo, in un primo momento, Fritzl cercherà di difendersi da quell'accusa di omicidio, che potrebbe costargli l'ergastolo in termini di pena, affermando che il bambino non era affatto morto mentre lui era presente. Solo dopo ritratterà tutto, confessando le proprie responsabilità nell'omicidio.

La scoperta

Il 19 aprile del 2008, Kerstin (di 19 anni), la figlia maggiore nata dall’incesto, viene trasportata in gravi condizioni dal padre/nonno Josef nel vicino ospedale dove, afflitta da sintomi gravissimi per una malattia di cui non viene rivelata la natura, i medici del pronto soccorso, ancora ignari della drammatica situazione in cui è vissuta la ragazza, decidono di fare un appello affinché la madre si metta in contatto con loro e raggiunga la figlia in ospedale.

Vista la gravità della situazione, Josef Fritzl decide quindi di liberare la figlia Elisabeth e gli altri due figli ancora rinchiusi nel bunker, non prima di aver allertato la moglie Rosemarie del loro imminente ritorno a casa, dopo tanti anni di assenza. Contemporaneamente a ciò, il personale medico ospedaliero, constatate le varie stranezze della storia, avvisa la polizia locale che, a sua volta, decide di riaprire il fascicolo sulla fuga di Elisabeth.

Il 27 aprile, nel corso dell'interrogatorio a cui è sottoposta, rassicurata riguardo una sua futura protezione nei confronti del padre/mostro, la ragazza rivela la storia dei suoi 24 anni in cattività, accusando il genitore di tutte le nefandezze subite in quel periodo di tempo. Con in mano la confessione di Elisabeth, quindi, poco dopo la mezzanotte di quello stesso giorno, gli agenti di polizia arrestano Josef Fritzl accusandolo di gravi crimini contro i membri della sua stessa famiglia: sequestro di persona, stupro, omicidio colposo per negligenza e incesto.

Subito dopo l'arresto l'uomo si chiude in un mutismo totale.

 Solo il giorno successivo, il 28 aprile, Fritzl confessa ammettendo le proprie responsabilità in relazione ai principali capi d'accusa a suo carico e rivelando l'esistenza di uno scantinato suddiviso in diverse camere tutte prive di finestre, col soffitto alto 1,70 metri e al quale si accede attraverso una piccola porta nascosta, in una parete del suo laboratorio, che poteva essere aperta solo con un meccanismo elettrico del quale solo Fritz conosceva il codice di azionamento.
Quello che ancora non è completamente chiaro, invece, è ruolo di Rosemarie, madre di Elisabeth e moglie di Josef Fritzl: il suo silenzio in tutti questi 24 anni resta uno dei punti oscuri di questa vicenda. La donna, che ha sempre dichiarato di non essersi mai resa conto (fino a una settimana prima dell'arresto) dell'esistenza di un bunker, né tantomeno della presenza al suo interno di sua figlia e dei suoi sette nipoti, rivelò poi di aver sempre creduto alla versione del marito quando sostenne che Elisabeth era fuggita di casa per aggregarsi ad una setta religiosa.


Il processo
 Il 13 novembre 2008 Josef Fritzl, 73 anni, viene incriminato per riduzione in schiavitù, sequestro di persona, stupro, coercizione, incesto e per l'omicidio colposo del neonato Michael. La perizia psichiatrica attesterà la capacità di intendere dell’uomo ma gli riscontrerà gravi disturbi di personalità.
 Il 16 marzo 2009 si apre, a St. Poelten, il processo a suo carico presieduto dal giudice Andrea Humer.  






Fritzl si dichiara colpevole di tutte le accuse ascritte con l'eccezione dell'omicidio e dell'aggressione con la minaccia di uccidere con il gas i suoi prigionieri, se loro avessero disobbedito.

 Il 19 marzo 2009, Josef Fritzl viene condannato al carcere a vita, senza possibilità di libertà condizionale per i seguenti 15 anni. L'uomo ha accettato la sentenza senza ricorrere in appello e sta attualmente scontando la sua pena a Garsten Abbey, un ex-monastero dell'Alta Austria trasformato in prigione, in una sezione speciale del carcere per pazzi criminali.




Il rapporto con Elisabeth
Fritzl afferma che non vedeva Elisabeth come una figlia, ma come una compagna. Tuttavia egli stesso ha confessato di averla legata a un palo per 9 mesi e di averla ammanettata più volte durante le molestie, obbligandola a guardare film pornografici e costringendola poi a ripeterne le scene. In una testimonianza videoregistrata della durata di alcune ore, trasmessa durante il processo, Elisabeth dichiarò di subire violenze sessuali da parte del genitore sin dall'età di dieci anni, sconfessando così la difesa del padre che aveva precedentemente dichiarato come, le molestie nei suoi confronti sarebbero iniziate per la prima volta nel 1985, quando sua figlia era ormai diciannovenne.

I sette figli di Josef ed Elisabeth Fritzl

    Kerstin: nata nel 1989 e vissuta sempre nel bunker
    Stefan: nato nel 1990 e vissuto sempre nel bunker
    Lisa: nata nel 1992 nel bunker e poi adottata e cresciuta nella casa del padre/nonno
    Monika: nata nel 1994 nel bunker e poi adottata e cresciuta nella casa del padre/nonno
    Alexander: nato nel 1996 nel bunker e poi adottato e cresciuto nella casa del padre/nonno
    Michael: nato e morto nel 1996 nel bunker
    Felix: nato nel 2002 e vissuto sempre nel bunker

Durante il suo interrogatorio, Fritzl, dichiarò di provare del bene nei confronti dei figli nati dall'incesto e di come, poco dopo la nascita di Kerstin, avesse portato in regalo un libro di ostetricia ad Elisabeth. Disse anche di aver cercato di rendere la vita dei figli il più felice possibile, tenendo conto delle condizioni imposte dalla cantina, rifornendo il freezer di cibo sufficiente e curando il sistema di aerazione. Queste affermazioni furono però sconfessate al processo dalla figlia che ricordò come, in occasione di un viaggio all'estero del padre durato un mese, lei e i suoi bambini fossero sul punto di morire per inedia.




Il caso di Shawn Hornbeck
 Un altro caso di rapimento di minori sfociato in sindrome di Stoccolma fu quello di Shawn Hornbeck, rapito nel 2002 e ritrovato nel 2007 mentre le autorità cercavano un altro bambino che “fortuna” volle fosse stato rapito dallo stesso sequestratore di Shawn, Michael J. Devo, soprannominato Devlin.
Parrebbe che questi inizialmente avrebbe voluto uccidere Shawn per eliminare il testimone di quella che fu una violenza carnale su minore, ma Shawn gli avrebbe proposto di divenire il suo schiavo personale in cambio della vita.
Nei quattro anni successivi Shawn ebbe molte libertà da Devo, giocava in cortile, si allontanava da “casa”, aveva un cellulare con accesso ad internet, attraverso il quale 3 anni dopo il suo rapimento, mandò anche dei messaggi ambigui alla fondazione creata dai genitori per finanziare la sua ricerca. In un primo messaggio chiedeva per quanto ancora avessero intenzione di cercare loro figlio, e nell’altro (scritto 57 minuti dopo) che era rammaricato per quanto aveva appena scritto, si scusava e chiedeva se avrebbe potuto scrivere una poesia per loro. Questi messaggi furono firmati Shawn Devlin.
Quando la polizia suonò alle porte di Devo nel 2007, durante un controllo di routine, ad aprire fu proprio Shawn, dichiarando il suo nome e cognome e nel salotto vi era anche l’altro ragazzino tredicenne rapito da pochi giorni, ovvero Ben Ownby che guardava la televisione.
Si noti come vi siano spesso emozioni contrastanti in un soggetto “prigioniero” della sindrome di Stoccolma che, per conservare una propria coerenza pur amando il proprio rapitore, si trova costretto ad odiare i suoi affetti della libertà e al tempo stesso si pente di questa sua ostilità.



Il caso di Patty Hearst
Un caso eclatante che venne dai più ritenuto come sindrome di Stoccolma è quello di Patricia Campbell Hearst, conosciuta anche come Patty, ricca ereditiera nipote di William Rudolph Hearst, magnate dei media statunitensi dell’epoca.
Nel 1974, a 19 anni, Patty fu rapita (in tutti i sensi) dallo SLA (esercito di liberazione simbionese), famigerato gruppo di estrema sinistra responsabile di molti crimini nell’America degli anni ’70.
Dopo due mesi di reclusione Patty si unì attivamente al gruppo partecipando a diverse rapine in banca, dopo poco più di un anno e mezzo dal suo sequestro fu catturata dalla polizia assieme ai membri del gruppo.

Durante il processo lei sostenne di essere stata tenuta in stato alterato da LSD che ne aveva condizionato il comportamento. Successivamente il secondo avvocato che la seguì sostenne che fosse stata sottoposta a un lavaggio del cervello, unito a stupro, tortura, droga e controllo delle comunicazioni. Tutto ciò avrebbe sviluppato in lei la sindrome di Stoccolma. Grazie a queste dichiarazioni Patty beneficò di una sensibile riduzione della pena e restò in carcere per meno di 2 anni. Successivamente si sposò con la sua guardia del corpo, partecipò a molti film (in alcuni dei quali interpretò se stessa) e molti libri e articoli furono scritti sul suo caso.


E’  opinione che questo famoso caso di sindrome di Stoccolma sia in realtà spurio: da un lato Patty Hearst ha caratteristiche che ben si sposano con la sindrome di Stoccolma (ha dimostrato la sua attrazione per “i più forti” e il suo bisogno di protezione sposandosi la sua guardia del corpo), ma d’altro canto è molto probabile che ella avesse trovato molto eccitante la vita degli SLA. Dopo tutto stiamo parlando di una allora adolescente ereditiera e non ci sarebbe da meravigliarsi che la vita trasgressiva degli SLA sia sembrata ai suoi occhi piena di stuzzicanti emozioni. Inoltre è difficile pensare che vi sia stata una vera e propria sindrome di Stoccolma visto che a differenza dei casi classici, Patty non prese le difese dei suoi sequestratori, ma pensò a proteggere se stessa accusandoli, senza pensarci due volte, di averle somministrato forzatamente l’LSD e manipolata mentalmente con la coercizione. Nelle foto e nei filmati delle rapine compiute dal gruppo del quale faceva parte, ha l’aria di essere molto divertita il che fa supporre che in fin dei conti possa non esserci stata tutta questa costrizione.


Il caso di Maria McElroy
Un caso che fu considerato sindrome di Stoccolma a posteriori in quanto avvenne parecchi anni prima della creazione di questo concetto, fu quello di Maria McElroy, figlia del giudice Henrey McElroy del Kansas City.
Maria McElroy nel 1933 rimase sotto sequestro per 29 ore, rilasciata illesa dopo il pagamento del riscatto (contrattato alla metà della richiesta originale), si batté per evitare la pena di morte chiesta dall’accusa per uno dei suoi rapitori (per la prima volta nella storia Americana chiesta per un rapimento) riuscendo, anche in virtù della sua appartenenza a una famiglia prestigiosa, a ottenerne la grazia.
Continuò ad andare a trovare in carcere i suoi rapitori negli anni a venire e sette anni dopo, all’età di 32 anni, sconvolta per la prematura morte del padre dovuta ad un attacco di cuore conseguente ad una grave accusa di corruzione, si suicidò lasciando un biglietto in cui chiedeva che la sua morte potesse riscattare la libertà dei suoi rapitori ancora in carcere, gli unici che, stando alle sue stesse parole, l’avessero capita veramente e non la considerassero completamente pazza. Va considerato che nei primi anni del Novecento lo studio della psicologia e del meccanismi della mente non era ancora in evoluzione e non meraviglia che la vittima “innamorata” dei suoi sequestratori potesse essere ritenuta pazza provocando così in lei negatività, estraniamento sociale e senso di colpa.

Il nostro viaggio nella sindrome di Stoccolma ha cercato di illustrarne i meccanismi psicologici e le specificità di ogni caso, così che si possa avere maggiore materiale per comprenderla.
E’ vero che può essere considerata un lato positivo in quanto frutto dell’istinto di sopravvivenza, ma spesso tiene le vittime relegate in situazioni mostruose con agghiaccianti risvolti. Fortunatamente, secondo alcuni studi, chi la conosce può evitare di esserne accecato. Auspicando, comunque, di non essere mai rapiti… se non dal bello della vita.

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